Tecno-palliativi. Ancora idee e soldi per risolvere un problema simbolicamente molto legato al nostro impatto sul pianeta: l'isola di plastica del Pacifico. SeaChange è un altro progetto in questo senso, che utilizza una tecnologia di gassificazione per salvare gli oceani dai rifiuti di plastica.
In inglese si chiama Great Pacific Garbage Patch, in italiano è più nota come isola di plastica, anche se non si tratta di un'isola, piuttosto di un ammasso di plastica di dimensioni enormi che le correnti oceaniche concentrano in un'area del Pacifico.
È un fenomeno che simbolicamente riveste un'importanza rilevante sulla psiche collettiva. Rappresenta infatti l'enormità dello stress cui sottoponiamo il nostro pianeta. Purtroppo, però, ci sono anche effetti ambientali piuttosto delicati, legati alla diffusione di microplastiche, prodotte dalla degradazione della plastica in mare, che arrivano a entrare nella nostra catena alimentare.
Dei 400 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno, il 90% viene bruciato, seppellito o disperso nell'ambiente. Solo il 10% viene riciclato. Anche quando la plastica viene riciclata, paradossalmente, sembra solo una posticipazione del problema.
La pandemia ha creato ulteriori problemi: un'enorme ondata di rifiuti sanitari, guanti e maschere monouso, sta arrivando nei mari. Nei paesi più poveri dell'estremo oriente, i principali produttori di rifiuti di plastica, la spazzatura che rimane fuori dai corsi d'acqua viene bruciata all'aperto, esponendo le persone a nubi cancerogene di diossine.
Abbiamo già parlato degli avventurosi tentativi di ridurre l'isola di plastica, in L'Ocean Cleanup non funziona. Tentativi che, va detto, per il momento sono stati piuttosto deludenti. Ma ormai la sfida è lanciata: sono numerosi i sedicenti geni e inventori che si reputano in grado di risolvere il problema. La coscienza sporca dei terrestri e l'attenzione mediatica che ne consegue, assicurano, a questi strampalati progetti, copiosi finanziamenti.
Ed ecco che salta fuori SeaChange, un'iniziativa che si propone di intercettare la plastica prima che arrivi negli oceani. I fondatori di SeaChange, Carl Borgquist e Tim Nett (eccoli qua) hanno formazioni diverse: Borgquist lavora nelle energie rinnovabili e Nett nella pubblicità. Hanno in comune la città natale, Paradise (anche il nome è carico di simbolismi), bruciata nel tremendo incendio californiano del 2018, il peggiore nella storia della California (il peggiore fino a quel momento, putroppo).
SeaChange consiste nel mettere delle navi mangia-plastica alla foce dei principali fiumi. Ogni nave sarà equipaggiata con un accrocchio chiamato Plasma Enhanced Melter (PEM, dispositivo avanzato di fusione al plasma). Il PEM utilizza la tecnologia dell'arco al plasma per eliminare la plastica e altri rifiuti prima che entrino nell'oceano. La plastica dovrà essere sminuzzata prima di entrare nell'arco al plasma.
La tecnologia utilizza alta temperatura e alta energia elettrica per riscaldare i rifiuti, principalmente per irraggiamento. Il materiale organico si trasforma in un gas combustibile chiamato syngas, che può essere utilizzato come combustibile pulito per la nave. I componenti inorganici diventano scorie vetrose, un vetro nero riutilizzabile, non tossico e sicuro per la vita marina.
SeaChange riscalderà l'arco plasma a temperature fino a 18.000 gradi. Non si tratta certo di una novità: la tecnologia è utilizzata per rifiuti pericolosi e medici dal 1996. Ma proprio la caratteristica di nicchia nell'ambito dei rifiuti suscita perplessità tra gli addetti ai lavori: la tecnologia è piuttosto dispendiosa, sia per costi di ammortamento che per quelli energetici. Non è un caso che il suo campo di applicazione sia limitato a rifiuti particolarmente delicati da smaltire, e di conseguenza economicamente gravosi.
Secondo l'organizzazione, circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica entrano negli oceani ogni anno. Ciò equivale a circa un autotreno con cassone ribaltabile al minuto. Di questo inquinamento plastico oceanico, il 90% sfocia nel mare dai 10 fiumi più inquinati. Il fiume Yangtze in Cina detiene il trofeo dell'inquinamento, raccogliendo 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica prima di scaricarli nel Mar Cinese Orientale vicino a Shanghai. Il secondo classificato è l'Indo, che sorge in Tibet prima di attraversare il Pakistan e poi di svuotare una media di 164.332 tonnellate di rifiuti di plastica nel Mar Arabico da Karachi. Gli altri otto fiumi sono i fiumi Giallo, Hai, Nilo, Gange, Perla, Amur, Niger e Mekong.
Le navi SeaChange col loro arco al plasma, viaggeranno verso questi fiumi inquinati per raccogliere e vaporizzare i rifiuti di plastica prima che entrino nell'oceano. L'equipaggio può elaborare fino a 5 tonnellate di plastica sulla nave ogni giorno, vaporizzandola per ottenere 100 kg di vetro nero inerte.
SeaChange ha in programma di partire per la sua prima missione nel 2021. Destinazione: Indonesia, responsabile di immettere tra 0,5 e 1,4 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica nell'oceano. SeaChange prevede di rimuovere i rifiuti per proteggere l'ecosistema indonesiano, sensibile e pieno di specie di coralli e foreste di mangrovie (vedi Mangrovie sempre più in pericolo).
Come detto, forti perplessità vengono dagli addetti ai lavori su questi progetti geniali. Il problema della plastica non sta nel 'che cosa farne', visto che di sistemi, dal riciclo, all'uso come combustibile, alla gassificazione, all'uso nell'edilizia, ne abbiamo a palate. Il problema è 'come raccoglierla', vista l'enormità della sua produzione e la conseguente dispersione.
Le navi SeaChange, col loro arco al plasma, rispondono, come tutti, alla prima inutile domanda. E lo fanno con un sistema oneroso e fighetto, ben adatto a carpire finanziamenti, ma molto fumoso sulla sua reale praticabilità. Il vantaggio sembra essere nel combattere il problema alla fonte, ovvero le foci dei grandi fiumi, e nel contenere all'interno delle navi sia il sistema di raccolta che quello di utilizzo, ovvero i motori delle navi stesse.
Basterà? Noi lo speriamo.