La regina delle criptovalute è cresciuta enormemente in valore e in popolarità negli ultimi anni. Molti affermano che sarà il futuro della finanza, e che il suo utilizzo è compatibile con l'ambiente. Ma, chiacchiere a parte, l'evidenza ci porta su altre considerazioni.
Secondo i suoi sostenitori, molto spesso sfegatati, il bitcoin sarebbe uno strumento per scardinare gli aspetti negativi del capitalismo, promuovere il riscatto sociale di nuove categorie di persone, e addirittura consentire uno stile di vita sostenibile.
La realtà, purtroppo dimostra che questa moneta 'sui generis' soggiaccia alle stesse logiche di speculazione tipiche del peggior capitalismo, compreso il fatto di impedire il riscatto sociale ai più poveri, favorendo le gilde di chi si può permettere mining farm ciclopiche. Ma, soprattutto, la sua crescita ha un impatto nefasto sull'ambiente.
Secondo una ricerca dell'universita di Cambridge, mantenere i Bitcoin consuma lo 0,34% dell'elettricità totale prodotta nel mondo, che rappresenta più dell'elettricità consumata in Argentina. Solo per fare un esempio, la quantità di energia consumata in un giorno dai Bitcoin è superiore all'energia necessaria per alimentare tutti i bollitori da tè di un paese tè-dipendente come il Regno Unito per 19 anni. Ma perché i Bitcoin consumano tutta questa energia?
La rete Bitcoin crea dal nulla, e distribuisce, un certo ammontare di monete (all'incirca sei volte l'ora) agli utenti che prendono parte alla rete in modo attivo, ovvero che contribuiscono tramite la propria potenza di calcolo alla gestione e alla sicurezza della rete stessa. La generazione di bitcoin viene definita "mining", un termine che ricorda l'estrazione di oro o altri minerali. L'assegnazione della ricompensa a un certo utente viene assegnata al primo che risolve un enigma computazionale, un problema di hash.
Tutti i nodi della rete competono per essere i primi a trovare una soluzione di un problema crittografico che riguarda il blocco candidato, un problema che non può essere risolto in altri modi che tramite forza bruta (bruteforce). Man mano che la potenza di calcolo a disposizione del sistema, ovvero il numero di concorrenti, aumenta, aumenta pure la soglia, chiamata difficoltà, associata alla soluzione del problema.
A seguito del successo mondiale dei bitcoin, la natura competitiva della generazione di bitcoin è diventata un vero guaio, visto che si è scatenata una vera e propria corsa all'oro. La quantità di operazioni mediamente necessarie a chiudere con successo un singolo blocco, e quindi aggiudicarsi il compenso, è diventata talmente elevata da richiedere grandi quantità di risorse in termini di energia elettrica e potenza computazionale. Chi aveva denaro sufficiente, si è costruito delle vere e proprie ASIC farm, delle strutture colme di computer dotati di processori ASIC, ottimizzati per svolgere questo tipo di calcoli, basati sulla forza bruta.
Ma basare il profitto di aziende, molto esposte in termini di capitali, sull'esito di una scommessa non è un comportamento razionale nel settore del business. Per questo, la maggior parte dei minatori si è unita in "gilde" chiamate mining pool dove tutti i partecipanti mettono in comune le proprie risorse, spartendosi poi i blocchi generati in funzione del contributo di ognuno. Questa è la situazione assurda che si è creata: migliaia, milioni di computer che lavorano a pieno carico, richiedendo energia per il loro funzionamento e raffreddamento, per produrre valore dal nulla.
Una situazione che, metaforicamente, dovrebbe riempire di orgoglio Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo di chi ha creato la struttura dei Bitcoin: ha dimostrato con estrema crudeltà e chiarezza l'inconsistenza del sistema capitalistico di creazione della ricchezza. Ma, purtroppo, queste ASIC farm richiedono energia, folli quantità di energia, in un momento in cui il mondo si sta rendendo conto che occorre gestire meglio questa preziosa risorsa, pena l'estinzione.
E tutto questo, si badi bene, senza sferrare un colpo alla struttura gerarchica e autoreferenziale del sistema economico, visto che al posto delle banche centrali, ora ci sono le gilde, a comandare la baracca. E chi non ha ingenti capitali da investire, è tagliato fuori.
Di fronte a queste evidenze, i bit-sostenitori si arrampicano sugli specchi, negando gli effetti negativi sull'ambiente. Le ASIC farm sorgono, comprensibilmente, dove l'energia elettrica costa poco. Il basso costo può essere originato da motivi politici, ovvero quando le politiche fiscali dei governi rendono l'energia elettrica più conveniente rispetto al suo prezzo industriale, per agevolarne l'accesso da parte delle popolazioni più povere. In questo caso i miner sfruttano incentivi governativi diretti ai poveri per lucrare illegittimamente. Qui c'è poco da questionare: i bitcoin in questi paesi hanno effetti disastrosi.
A volte l'energia costa poco per motivi logistici, ovvero a causa di over-produzione di energia rinnovabile, il cui stoccaggio è complicato da questioni tecniche. Per esempio, il Canada utilizza l'energia idroelettrica per generare una grande percentuale della sua elettricità. Una delle sue province, il Quebec, genera il 95% della sua elettricità da energia idroelettrica, e i prezzi dell'elettricità sono bassi.
Un altro esempio è l'Islanda. I miner trovano questo posto favorevole a causa delle sue basse temperature (per raffreddare i processori) e dei bassi costi energetici. Questa nazione genera una grande percentuale della sua elettricità da fonti geotermiche. Rispetto agli impianti a gas o a carbone, le fonti geotermiche emettono meno carbonio e quindi non hanno un impatto negativo sull'ambiente. Secondo i bit-sostenitori, essendo l'impronta di carbonio bassa in questi paesi, un'organizzazione di miner avrebbe impatto meno negativo sull'ambiente.
Soffermarsi su situazioni locali non porta un contributo alla verità: in un momento di presa di coscienza collettiva sul riscaldamento globale, in cui ciascun kilowattora di energia ha un valore fondamentale per ridurre l'impatto carbonico, sarebbe necessario salvare e conservare gelosamente anche gli eccessi di energia rinnovabile, per impedire la creazione di inutile energia fossile altrove. Ovunque e comunque. Sprecarla per produrre moneta virtuale, l'equivalente di gettarla nello sciacquone del water, non ha alcun senso. E fornisce pure un disincentivo a tecnologie di accumulo di energia rinnovabile (vedi Contro i combustibili fossili saranno cruciali le batterie).
Ancora, i bit-sostenitori affermano che le valute convenzionali impieghino notevoli risorse, tra cui carta, per stampare denaro, e mantenere gli uffici (con luce e aria condizionata) che ne sovrintendano la circolazione. Tutto ciò costituirebbe un'impronta ambientale paragonabile a quella dei Bitcoin, che i Bitcoin stessi contribuiscono a limitare, circolando virtualmente.
Arrampicarsi sugli specchi significa ignorare i numeri, che, quando si parla di monete e di energia, sono importanti, e sostituirli con considerazioni qualitative. I numeri sono purtroppo impietosi, e suonano una sentenza di condanna per la popolare criptovaluta. Il market cap dei bitcoin, ovvero l'equivalente della massa monetaria circolante (M2 se fosse una moneta convenzionale) si situa, al momento in cui scriviamo, attorno ai mille miliardi di dollari USA.
Guarda caso, ha un valore molto simile alla stima del PIL, a parità del potere di acquisto, dell'Argentina, se teniamo conto anche delle stime sull'economia informale. Ora, se assumiamo che la massa monetaria circolante in quel paese sia più o meno pari o superiore al PIL annuo, come sta avvenendo in tutto il mondo, potremmo dire che il suo valore è dello stesso ordine di grandezza di quello del circolante di bitcoin.
Bene: per amministrare una massa monetaria simile a quella che circola in Argentina, si utilizza l'equivalente dell'energia elettrica totale consumata in Argentina. Vale a dire tutta l'energia elettrica consumata da 43 milioni di persone per spostarsi (in un paese immenso), mangiare, produrre acciaio, raffreddare case, far andare tutti gli elettrodomestici, i treni, le industrie, qualsiasi cosa elettrica di tutta l'Argentina. Si tratta di un valore migliaia di volte superiore a quello richiesto per amministrare le transazioni del peso argentino. Compresa la carta, il raffrescamento delle banche, e anche i deodoranti per le ascelle degli impiegati di banca, ovviamente.
Questi sono i numeri, e sono, come sempre, crudeli, nello smascherare le bufale dei fanatici. Il resto è costituito da chiacchiere da bar, che circolano esclusivamente tra chi ci vuole credere, ovvero i sostenitori di questa disastrosa criptovaluta.