La bioplastica diventa sempre più la bacchetta magica che ci permette di continuare a inquinare sconsideratamente il pianeta. Colpa del greenwashing dei giganti della chimica, ma anche nostra che ci facciamo abbindolare.

Le grandi aziende della chimica stanno investendo cifre elevate sulle plastiche vegetali, convinte che questo basti a dipingere di verde la loro immagine. Le cose purtroppo stanno diversamente.

L'uso di bioplastiche, materiali prodotti a partire da piante anziché da combustibili fossili, è previsto crescere almeno del 50% nei prossimi cinque anni, secondo European Bioplastics Association, l'associazione europea delle bioplastiche.

Attualmente le bioplastiche costituiscono solo l'1% del mercato delle materie plastiche, ma aziende chimiche come BASF sono entrate nel crescente mercato per soddisfare la domanda di aziende come Coca-Cola e Lego (vedi Plastica: le colpe di Coca-Cola e Lego: stop alla plastica nei suoi mattoncini entro il 2030). La sensazione è che il petrolchimico usi la bioplastica per dare una corposa mano di verde al settore.

Provoca infatti una certa inquietudine il consorzio di settore "PEFerence", composto da 11 società tra cui Synvina, Avantium, BASF e una serie di altri colossi della chimica e proprietari di marchi. I partner lavoreranno congiuntamente alla creazione di una catena di approvvigionamento per due materiali: l'acido furandicarbossilico (FDCA) derivato dal dal fruttosio (FDCA) e il polietilenefuranato (PEF).

Detto così, sembra una cosa bella. Ma catena di approvvigionamento significa un canale sicuro in qualità e quantità per lo zucchero necessario alla sintesi della bioplastica. Quando i colossi si organizzano in questo senso, non si accontentano di scarti di produzione. È invece probabile che porzioni rilevanti di terra coltivabile siano sottratte alla produzione di cibo, per entrare nella filiera della plastica vegetale.

Per il momento questi materiali sono utilizzati poco più che come additivi della plastica tradizionale, e pare che, al di là di alcune caratteristiche tecniche molto evidenziate dal marketing, l'unico motivo della loro presenza sia abbassare la percentuale di plastica da petrolio nella composizione in etichetta.

La mistificazione perpetrata dai colossi del petrolchimico è spostare l'accento sulla provenienza bio, invece che sull'uso che si potrà fare del materiale dopo il suo consumo: se proviene in parte o tutto da colture vegetali, allora potrà essere considerato ecologico, indipendentemente da quanto danno potrà fare una volta terminata la sua funzione.

In realtà, al contrario di ciò che si pensa, molti prodotti a base biologica non sono affatto biodegradabili. La PlantBottle di Coca Cola, per esempio, sebbene in parte derivata dalla canna da zucchero, è chimicamente affine alle bottiglie di polietilene tereftalato (PET), e quindi molto difficile da demolire.

Va detto inoltre che anche le materie plastiche compostabili non risolvono il problema dell'accumulo di plastica nelle spiagge e nei mari, luoghi dove non sono demolibili, ma devono essere inviate ad un impianto di compostaggio industriale. Chiunque abbia provato a compostare la bioplastica in un impianto domestico ha ben presente il problema.

Come detto, le bioplastiche possono causare danni ingenti se finiscono nel posto sbagliato. Anche quelle biodegradabili possono impiegare anni per sciogliersi nel mare, e nel frattempo possono causare molti problemi, per esempio essere scambiate per cibo e ingerite oppure intrappolare gli animali.

I giganteschi movimenti dei colossi del petrolchimico sono retti da una bufala, ovvero che l'origine biologica della plastica ne determini l'ecocompatibilità. Ma BASF e soci non sono i soli nel greenwashing della plastica: IKEA, per esempio, entro il 2020 intende fabbricare tutti i suoi prodotti in plastica, comprese borse per la spesa, giocattoli per bambini e scatole di stoccaggio, da materiali rinnovabili e/o riciclati.

In questa definizione, "materiali rinnovabili e/o riciclati" ci sta un po' di tutto, materie prime vegetali, come il polilattide, combinazioni di materiali biologici, o ancora miscele con materie plastiche a base di petrolio. L'importante è fare un po' di fuffa.

Di Lego e CocaCola abbiamo già parlato. Interessante è che la tecnologia PlantBottle è stata concessa in licenza ad altre aziende come il produttore di ketchup Heinz (già di suo inquinatore di cibo) e la Ford Motor Company.

Ma le perplessità maggiori sulle bioplastiche è che possano incoraggiare la cultura dell'usa e getta, semplicemente sostituendo la plastica da petrolio con un materiale bio-magico che risolva i problemi di inquinamento.

Come abbiamo già detto, la cara e vecchia plastica da petrolio è un prodotto tutt'altro che disprezzabile, anche in ottica circolare: è riciclabile e spesso riutilizzabile. Il suo problema sta nella sua diffusione e nei costi di raccolta, "che rendono non conveniente qualsiasi utilizzo diverso dal lasciarla defluire verso il mare."

In definitiva, paradossalmente, sarebbe meglio rendere più dure e pesanti le plastiche, anziché degradabili, in modo da permetterne il sicuro riutilizzo, magari all'interno di circuiti che prevedano il deposito su cauzione (vedi Il punto sulle bottiglie di plastica e Scozia: ritorno al deposito con cauzione), che hanno il pregio di dare un costo e un valore agli oggetti di plastica.

Diverso sarebbe il discorso se le plastiche compostabili fossero prodotte esclusivamente da prodotti di scarto. Ma l'impegno dei giganti della chimica sembra andare in direzione opposta.