Zara e H&M decidono di incentivare il riciclo raccogliendo abiti usati. Un'operazione di dubbia coerenza.
I programmi di riciclo in negozio hanno l'obiettivo di affrontare il problema enorme dei rifiuti della moda, ma secondo i critici occorrerebbe spostare il focus sulla riduzione dei consumi.
Quando si entra in un negozio, probabilmente si sta cercando di fare un affare, non di sbarazzarsi di un vecchio abito. Ma i rivenditori di abbigliamento e alcuni grandi marchi chiedono sempre più agli acquirenti di smaltire i loro abiti dismessi in negozio.
I rivenditori principali sono sotto pressione per affrontare i rifiuti e in risposta a questo, alcuni marchi, tra cui H&M e Zara, leader europei del
vorrei-ma-non-posso, stanno intensificando le iniziative di riciclaggio all'interno del negozio che consentono ai clienti di abbandonare gli abiti indesiderati nei bidoni inseriti nei punti vendita. Altre aziende come Adidas e il gruppo lussuoso Kering, il proprietario di numerosi marchi come Alexander McQueen e Gucci, specializzati nello schiaffo-alla-miseria, hanno accettato di fissare degli obiettivi per la raccolta degli indumenti entro il 2020 al Copenhagen Fashion Summit.
H&M racconta di aver raccolto circa 40.000 tonnellate di indumenti dal lancio dell'iniziativa nel 2013, i quali finiscono nell'impianto di riciclaggio partner a Berlino.
Quello che non può essere riutilizzato invece, viene trasformato in prodotti come panni per la pulizia o fibre isolanti.
L'entusiasmo aziendale per tali programmi sembra crescere: H&M vuole aumentare la raccolta a 25.000 tonnellate l'anno entro il 2020, come afferma Catarina Midby, responsabile per la sostenibilità del Regno Unito e dell'Irlanda. Le tattiche comprendono campagne pubblicitarie, voucher e istruzione di dipendenti che possano informare i clienti sul progetto.
Zara invece, che ha iniziato a installare contenitori per la raccolta nel 2016 nei negozi in tutta Europa, ha dichiarato che presto sarà completata l'istallazione in tutti i negozi anche in Cina. Mentre il marchio Inditex ha deciso di donare tutti i vestiti raccolti in beneficenza, tra cui anche alla Croce Rossa.
Nonostante i crescenti investimenti, i comportamenti dei consumatori sono sempre più difficili da modificare: da una recente indagine svolta da parte di Sainsbury è risultato che tre quarti degli abitanti in Inghilterra gettano i vecchi vestiti nei rifiuti domestici. Qualche volta ci è consentito l'orgoglio di essere italiani. Si spera che la crescente prevalenza di questi sistemi di raccolta farà sì che anche il settore tessile venga riconosciuto come possibile riciclo tanto quanto lo è quello della carta e della plastica.
Tuttavia, alcuni osservatori si interrogano sulla capacità del riciclaggio in negozio nell'influenzare un cambiamento reale. Come strategia più ampia per aumentare l'efficienza delle risorse, questi programmi possono essere preziosi, ma raccogliere i vestiti è solo una parte della battaglia. Anche ciò che accade dopo la raccolta è importante. Il riciclaggio meccanico attuale delle fibre naturali come il cotone e la lana, crea fibre tessili più corte e inferiori che non possono più essere utilizzate nei vestiti. Al contrario, vengono usati per realizzare prodotti di basso valore come i panni per la pulizia, che possono finire in discarica o negli inceneritori.
Mancano cospicui investimenti in tecnologia per realizzare qualcosa di simile a un modello più circolare, dove le materie prime utilizzate per l'abbigliamento vengono recuperate e reinserite nel mondo della moda a un prezzo competitivo. Il capitale a disposizione per la ricerca e lo sviluppo è poco, e senza marchi che svolgono un ruolo attivo nel finanziamento, queste soluzioni non saranno efficaci. I marchi, come vediamo, preferiscono investire in immagine.
L'idea è quella di aumentare i tassi di raccolta e di riciclo dei tessili e ridurre i rifiuti inutili che finiscono nelle discariche. La domanda è sempre la stessa: come ci si può fidare della volontà circolare di aziende che continuano a istigare alti livelli di consumo, per esempio con il lancio da parte di alcuni marchi di 24 collezioni nuove l'anno?
Ha senso sostenere il riciclo all'interno di negozi che sono più che altro dei templi del consumismo?È necessario domandarsi prima di tutto perché consumiamo così tanto. Acquistare meno vestiti non solo aiuterebbe l'ambiente, ma anche migliorare il nostro benessere. Dopo l'iniziale brivido nell'aver fatto un affare, la nostra soddisfazione scompare rapidamente e lascia spazio a sensi di colpa. L'aspettativa è quella di tenere il passo con le tendenze in continua evoluzione, rimpolpando il nostro armadio in modo limitato, anche se gli studi hanno dimostrato lo shopping appaga momenti di tristezza.