Quantità incredibili di cibo sono distrutte ogni giorno a causa del coronavirus. Ma sarebbe un'occasione per riprogettare la filiera alimentare nel segno della sostenibilità.

I mercati si sono ridotti, i magazzini sono pieni, e mancano le reti di ridistribuzione, mettendo gli agricoltori in una situazione terribile.

Gli effetti della pandemia di coronavirus sulla sicurezza alimentare sono stati immediatamente visibili negli scaffali dei supermarket, dove localmente era impossibile trovare un sacchetto di farina o un pacchetto di lievito. Qualcuno ha messo limiti al numero di pomodori in scatola e pacchi di pasta acquistabili.

Ma questi sono stati solo eventi scenografici, scatenati dalla psicosi collettiva. In realtà, la crisi alimentare potrebbe diventare presto molto più grande, se guardiamo oltre i supermercati, nei campi dove gli agricoltori producono il cibo che normalmente sfama l'Italia e l'Europa.
Molti agricoltori devono distruggere le colture per le quali hanno lavorato duramente, o semplicemente astenersi dalla raccolta dei prodotti maturi. Questo perché i mercati all'ingrosso si sono prosciugati. Scuole, compagnie aeree, ristoranti e hotel non funzionano più, il che significa che gli ordini di prodotti freschi sono stati annullati.

Le colture giunte a maturazione vengono lasciate nel terreno a marcire, mentre quelle nuove sono piantate nella speranza che l'economia si sia riavviata quando saranno pronte per essere raccolte.

Molti potrebbero obiettare: ma come si coniuga la carenza di cibo sugli scaffali con la verdura distrutta nei campi? In effetti, la questione è dannatamente complessa, e la chiave di interpretazione è il ruolo della GDO (Grande Distribuzione Organizzata: ovvero le catene di supermercati). La domanda da parte della GDO è rimasta elevata, visto che i consumatori, pur nelle ristrettezze, continuano a pretendere di mangiare (scusate l'ironia).

Il problema è che i contratti che gli agricoltori stipulano con la GDO sono contratti capestro, con buona pace della comunicazione pubblicitaria delle catene di distribuzione, che sostengono che "un supermercato non è un'isola", "persone, oltre alle cose", oppure "una comunità è più grande di un supermercato."

Gli agricoltori subiscono i potere contrattuale di queste catene, accettando di vendere sottocosto i loro prodotti. Lo fanno perché, grazie a questi contratti, possono raggiungere una scala di produzione, che consente loro di guadagnare di più nei piccoli mercati diretti, quelli che abbiamo citato prima: mercatini di vendita diretta, scuole, ristoranti e hotel.

Ma ora, come detto, i mercatini diretti sono stati chiusi, e così scuole, ristoranti e hotel. Quindi, agli agricoltori non resta che vendere sottocosto alle catene di supermarket, che si sono improvvisamente dimenticate di essere "persone, oltre alle cose". Una situazione economica esplosiva, che non tarderà a far sentire le sue conseguenze.

Un altro problema che assilla i nostri agricoltori, quei pochi non funestati dal crollo dei mercati diretti, è la mancanza di braccianti. La nostra agricoltura è fortemente dipendente da manodopera straniera in nero, complice una politica annosa miope e sciatta.

Il COVID-19 ha impedito l'arrivo dei braccianti stagionali dai paesi dell'est europeo e dell'Africa, per cui non c'è materialmente nessuno che raccoglie frutta e verdura. E quindi, di nuovo, le colture giunte a maturazione vengono lasciate nel terreno o sulle piante a marcire.

I risultati di questa situazione li ricaviamo dai giornali: tonnellate di cipolle sepolte in trincee, tonnellate di latte che viene scaricato quotidianamente, milioni di uova (fecondate) fracassate per evitare di allevare animali da macello che nessuno vuole più. Queste ultime vengono inviate a impianti di trasformazione di alimenti per animali, quindi, se vogliamo, non è uno spreco totale. Anche la pesca stenta, poiché i due terzi della fornitura di pescato viene normalmente consumata in hotel e ristoranti.

Le celle frigorifere e i congelatori degli agricoltori e dei grossisti sono al pieno della loro capacità, ma anche questo è rischioso. Molti agricoltori temono che i loro consueti punti vendita all'ingrosso non riaprano una volta terminata la crisi, perché molti ristoranti hanno cessato l'attività.

E non è che tutta questa abbondanza alla fonte sia raccoglibile per intero dalle associazioni benefiche: i banchi alimentari e le cucine dei frati o degli enti di carità hanno accolto con favore l'afflusso di prodotti freschi, ma ora sono inondati; hanno una capacità limitata di conservazione e pochi volontari per preparare e servire ingredienti deperibili.

Parte del problema nasce dal fatto che molti prodotti sono confezionati per il commercio all'ingrosso, in quantità enormi che non sono facilmente utilizzabili dalle famiglie piccole e dai single: pensate a sacchi da 50 kg di farina e taniche da 25 litri di latte UHT. Il sistema di distribuzione, costruito per rifornire ristoranti allo sfuso, sta cercando per adattarsi a imballaggi molto più piccoli per uso domestico.

L'aiuto deve venire sia dall'alto che dal basso. Sarebbe opportuna un'azione governativa per acquistare queste colture invendibili e ridistribuire a chi ne ha bisogno, forse con l'aiuto dell'esercito, sfruttando le loro competenze nella logistica. Nel frattempo, una risposta di base, dal basso, potrebbe fare molto, se i membri delle comunità si chiedessero quali alimenti vengono coltivati ​​o allevati localmente, in modo biologico, raggiungendo quei fornitori per acquistare ingredienti e spargere la voce.

Le persone dovrebbero esaminare le proprie abitudini alimentari e sforzarsi di integrare nella propria dieta prodotti locali più freschi, prodotti in maniera sostenibile. L'industria del pesce all'ingrosso sta cercando di convincere le persone a cucinare il pesce a casa, nella speranza di espandere immediatamente quel mercato.

Il coronavirus è riuscito a evidenziare le disuguaglianze che già esistevano nel nostro sistema alimentare. Fame e insicurezza alimentare per larga parte della popolazione, accompagnate da diabete di tipo 2 e malattie cardiache, dovute al consumo eccessivo di zuccheri raffinati. sarebbe opportuno che questa crisi fosse un'occasione per rifornirsi di prodotti locali, bio e freschi, al posto che lasciarli marcire nei campi.

Sarebbe opportuno che, una volta finita la crisi, nascesse un nuovo sistema che paghi in modo più equo i braccianti agricoli, i lavoratori delle aziende di ristorazione e il personale dei ristoranti. Per ora si temono invece disordini da parte dei lavoratori, soprattutto quelli in nero, poiché l'onere del sistema alimentare è ricaduto sulle persone meno pagate.

In nessun momento della memoria recente è stato così chiaro che il modo in cui coltiviamo, distribuiamo e acquistiamo cibo deve cambiare. Una produzione su piccola scala che può ruotare più rapidamente per soddisfare le esigenze locali e affrontare le crisi globali, che non si basa su vaste reti mono-colturali e di reti contorte per la distribuzione, è l'unica via sensatamente percorribile. Potrebbe esserci cibo sufficiente per sostenere l'umanità, ma solo se imparassimo a distribuirlo correttamente.