Le banche hanno ricevuto ordini dall'alto di penalizzare le aziende che producono più CO2 e di incentivare le aziende verdi. Fino a oggi, è un totale fallimento.

Un rapporto di un grande istituto finanziario segnala che, nonostante molte banche abbiano inserito la valutazione ambientale dei progetti, lo sforzo non è sufficiente a conseguire gli obiettivi dell'Accordo di Parigi.

Con l'accordo di Parigi entrato in vigore, è necessario che tutte le economie del mondo si attrezzino per la transizione verso un'economia a basse emissioni di CO2.

Il compito delle banche è utilizzare i rubinetti del credito per cancellare dal mercato le aziende che continuano a lavorare in settori ad alta intensità di CO2, salvando le imprese che si danno obiettivi per ridurre la propria presenza in questi settori. Dall'altro lato dovrebbero incentivare sempre più gli investimenti in energie rinnovabili e nell'efficienza energetica.

Pare però che l'80% delle banche non sappia che farsene dei risultati degli stress-test ambientali, nonostante questi siano stati previsti dall'accordo di Parigi (COP21) sul clima del 2015.

Questa è l'opinione che si ricava da un nuovo rapporto del Boston Common Asset Management (BCAM), una cosetta che cura gli interessi di investitori con un patrimonio totale di 500 miliardi di dollari USA (470 miliardi di €). L'indagine ha esaminato l'apporto per quanto riguarda i rischi climatici di 28 tra le più grandi banche del mondo.

Nonostante oltre il 70% delle banche introduca gli stress test sull'impatto ambientale e l'impronta di CO2, quasi nessuna riesce a fare qualcosa di concreto con l'obiettivo 2C (aumento massimo di 2°C entro il 2050) stabilito con l'accordo di Parigi.

In sostanza, per la prima volta il potere finanziario, quello che si suppone muova le sorti dell'umanità, si preoccupa per il clima, e nota un fastidioso immobilismo proprio nei propri centri operativi, ovvero le banche.

Le 28 banche monitorate sono tutt'altro che secondarie nel mondo dell'economia e della finanza, visto che comprendono Barclays, Citigroup, HSBC Holdings e ING. Sotto i buoni auspici di COP21 hanno introdotto i metodi di stress test in relazione all'impatto climatico, ma non è servito a nulla, visto che quasi nessuno è riuscito a stimolare un ​​cambiamento tangibile nelle strategie delle aziende finanziate.

Oltre l'85% degli intervistati attualmente fornisce finanziamenti e investimenti in energie rinnovabili, ma meno del 40% in presenza di un piano intenzionale. Desolatamente, solo il 35% delle banche sta finanziando l'efficientamento energetico. In ogni caso, per l'80% delle banche, gli stress-test ambientali non portano ad alcuna modifica nei processi decisionali delle aziende.

L'amministratore delegato di BCAM, Lauren Compere, minimizza la portata di questo fallimento, parlando di "ampi margini di miglioramento delle politiche ambientali delle banche." Ma aggiunge: "Non ha molto senso che i finanziamenti a settori dell'economia senza futuro, come l'estrazione del carbone, superino ancora il finanziamento complessivo della green economy."

Il riferimento, non troppo nascosto, è nei confronti delle recenti decisioni da parte di grandi gruppi bancari svizzeri, tedeschi e francesi per ridurre l'esposizione sul settore del carbone di oltre 800 miliardi di euro.

Le notizie che ci svela questo rapporto sono dunque due, classicamente una cattiva e l'altra buona. La cattiva notizia consiste nel fatto che le banche non riescono a fare la loro parte nello stimolare la riduzione dell'impatto dell'anidride carbonica sulla terra.

La buona notizia è che i loro padroni, i dominanti del mondo, sono infuriati per questo fiasco, e vogliono correre ai ripari. Segno che la ragionevolezza scientifica sul clima ha raggiunto i piani alti del potere, il che è l'unico presupposto valido perché qualcosa sia fatto sul serio.