A sei anni dalla messa al bando in Italia ed Europa, uno sguardo critico sull'impatto degli shopper, qualunque sia la loro composizione.

I sacchetti di plastica convenzionali inquinavano più per il loro uso smodato che per le caratteristiche della materia prima. Oggi possiamo constatare che i risultati del bando in Unione Europea dal 2010 sono piuttosto miseri e che le alternative hanno deluso. C'è ancora spazio per un ripensamento delle regole?

Il bando dei sacchetti di plastica in polietilene risale formalmente al 2010, ma non sembra aver cambiato profondamente le nostre abitudini di acquisto, di consumo e di spreco. Questo conferma l'opinione di chi ritiene l'attuale regolamentazione inefficace nel raggiungere obiettivi di sostenibilità, mentre i costi dell'operazione gravano sui cittadini, in particolare sulle famiglie a basso e medio reddito.

Le alternative al polietilene in questi sei anni non si sono rivelate all'altezza delle aspettative. I sacchetti compostabili, detti bio-shopper, sono completamente biodegradabili e compostabili (cioè utilizzabili anche per la raccolta dell’umido domestico). Purtroppo la loro composizione in biopolimeri (prodotti da amido di mais o patate) li rende troppo fragili e non idonei a essere riutilizzati. Il costo è attorno ai 10 centesimi.

A questa categoria si è aggiunta subdolamente quella dei falsi sacchetti ecologici, composti di polietilene più additivi. La loro biodegradabilità li ha resi idonei a essere spacciati per compostabili, ma la loro presenza nella frazione umida è un fattore di inquinamento. L’Antitrust sanziona regolarmente i produttori che certificano la loro compostabilità, ma non può oggettivamente impedirne la produzione. Sono sottili e fragili come i i veri bio-shopper, e costano anch'essi 10 centesimi.

In una recente indagine di Legambiente, il 54% dei sacchetti per la spesa prelevati presso diversi punti vendita della Grande distribuzione organizzata in sette regioni italiane sono risultati non compostabili, e quindi non conformi alla legge.

Anche sul fronte dei cosiddetti sacchetti riutilizzabili dobbiamo registrare più di una delusione. Quelli realizzati in cotone, juta, carta di riso, polipropilene e altro costano da 1 a 3 euro, e, pur non essendo riciclabili, hanno generalmente una certa resistenza. Ma per essere ri-utilizzati devono essere portati vuoti da casa. Richiedono cioè un cambiamento culturale che in Italia, complice la presenza dei bio-shopper, non c'è stato.

E se il sacchetto riutilizzabile non è riutilizzato, l'inquinamento aumenta enormemente: è stato calcolato infatti che un sacchetto di cotone standard ha un impatto 130 volte maggiore rispetto a un sacchetto di polietilene. Questo significa che, se non viene utilizzato almeno 130 volte prima di essere smaltito, avrà prodotto più inquinamento rispetto al sacchetto convenzionale (assumendo che quest'ultimo sia utilizzato una sola volta).

A queste considerazioni aggiungiamo che vi sono interi settori in cui non c'è regolamentazione e in cui in questi anni non si è fatto alcun passo avanti: per esempio i sacchetti e i guanti utilizzati nei settori ortofrutta dei supermercati sono ancora tutti in polietilene, e sono usati male, con sprechi e senza alcuna attenzione all'uso razionale.

Tutto ciò ci fa concludere che, almeno in Italia il bando dei sacchetti di polietilene non abbia portato grandi benefici all'ambiente. Forse sarebbe il caso di ripensare una regolamentazione che tenga conto dei passi avanti realizzati nel settore della raccolta e del riciclo.

Secondo questo approccio, sarebbe molto più proficuo concentrarsi sul riutilizzo e il riciclaggio di sacchetti convenzionali in polietilene piuttosto che invadere il mercato con buste più leggere e fragili, dalla vita utile molto limitata (si bucano a guardarli) oppure con borse più durature, ma che non vengono effettivamente utilizzate a sufficienza.

Le caratteristiche del polietilene, a ben vedere, sono tutt'altro che disprezzabili. Si tratta di un materiale praticamente indistruttibile, economico (i sacchetti costavano 5 centesimi l'uno), riciclabile al 100 per cento. La sua facilità di lavorazione renderebbe possibile una filiera di produzione locale, che assieme alle fasi di raccolta e riciclo contribuirebbe in maniera significativa all'occupazione.